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domenica 13 marzo 2016

Sessant'anni di Sentieri selvaggi: una lettura



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Introduzione

Sessant’anni dalla prima proiezione di quello che forse è il capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956).

La mia passione per questo regista e per questo film è palese (l’header di sopra ne è un esempio). Quello che segue è un estratto dalla mia tesi in Scienze Storiche, discussa nell’ottobre 2015, dal titolo La rappresentazione cinematografica dei nativi americani: una lettura del passato asservita al presente. Nell’ambito di tale lavoro, tra i settanta film presi in analisi, non poteva mancare Sentieri selvaggi. È un film grandioso, molto complesso, e quella che segue, per quanto lunga, non è che una piccola parte di quanto andrebbe detto. Non è che una delle tante tematiche attraverso cui guardare a questo capolavoro.



La questione “indiana” in John Ford
Ford dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’60 realizzò alcuni dei suoi capolavori western. In questo arco di tempo, Ford ragionò sulla rappresentazione dei Nativi americani e sono evidenti nella sua filmografia i segni di questa riflessione. Negli anni ’90, ha avuto luogo un intenso dibattito sul rapporto tra Ford e gli Indiani. Il regista dichiarò che la sua simpatia era sempre stata con gli Indiani, anche per le sue origini irlandesi [1] e personalmente egli ebbe un ottimo rapporto con la tribù Navajo della Monument Valley, tanto da essere ricevuto dalla tribù e meritarsi un nome indiano, Natani Nez (Il Grande Soldato) [2]


Tuttavia, non sempre dai suoi film emerge un ritratto positivo dei Nativi americani (basta guardare a film come anteguerra come Il cavallo d'acciaio del 1924, Ombre rosse o La più grande avventura, entrambi del 1939). Richard Maltby sostiene che nella filmografia di Ford c’è un persistente razzismo [3], al contrario per William Darby da Il massacro di Fort Apache (1948) in poi c’è un graduale miglioramento dell’immagine dei nativi americani [4]. Ken Nolley, invece, ha assunto una posizione intermedia per molti versi più convincente: non si può negare che in venticinque anni, da Ombre rosse (1939) a Il grande sentiero (1964), ci sia stato in Ford un ripensamento dell’immagine degli Indiani, tuttavia esso non è lineare e per comprenderlo è necessario tener presenti i rapporti con gli studios, con il mercato, con il team che di volta in volta lo affiancava nella lavorazione. Per lo studioso, pur non arrivando mai a un pieno ribaltamento dei ruoli, in film come Sentieri selvaggi e Il grande sentiero, Ford opera la rottura di determinati schemi che egli stesso aveva contribuito a consolidare negli anni precedenti [5]
    
In Ford è fondamentale l’idea della comunità. Comunità che nella visione del regista è, come l’ha definita Toni D’Angela, un tutto organico [6]: qualcosa che espande l’individuo ma che non è mai rigida, mai istituzionalizzata, esclusivista o bigotta; è un organismo in continuo movimento, in cui il mito prolifera e svolge il ruolo di cementificatore, di collante. Da un lato la comunità vive grazie al mito e ai suoi rituali collettivi che la tengono insieme (dalla messa ai balli), dall’altro questo organismo è in continuo confronto con quanto è fuori da esso e tale confronto può generare incontro (come con gli irlandesi di Il cavallo d'acciaio, i mormoni di La carovana dei mormoni del 1950, fino alla prostituta, al ricercato e all’alcolizzato di Ombre rosse) o scontro. 


Gli Indiani in Ford, dunque, giocano un doppio ruolo: sono al tempo stesso sia oggetto della mitologia della genesi della comunità e della nazione americana, ma anche l’incontro/scontro ai massimi livelli possibili. Sulla questione dei nativi, pur in un percorso non lineare, Ford è in continuo aggiornamento ideologico.

[...]


La questione dei Nativi americani in Sentieri Selvaggi

Sentieri Selvaggi rappresenta per il genere western e la rappresentazione cinematografica dei nativi americani un vero e proprio turning point [7]. Del film è stato detto che chiude la fase epica del western, aprendo quella tragico-romanzesca [8] – o cinica, secondo Michael Hilger [9] – che costrinse i western che seguirono a confrontarsi con il tema del razzismo, qui definitivamente portato in superficie [10].
Il film è tratto da un libro Alan LeMay, autore vendutissimo dai cui scritti emerge una società bianca contraddistinta da uno schietto razzismo [11]. Mai come in questo film, il personaggio bianco si definisce in relazione e in contrapposizione con il mondo dei pellerossa. Sul rapporto tra il protagonista del film e il mondo dei nativi americani, Roberto De Gaetano dice “l’odio è la forma più radicale e inesorabile di dipendenza dall’altro” e sostiene che per la prima volta nel western la vittoria del protagonista bianco coincide con la sua stessa sconfitta, in quanto una volta vinto il nemico Ethan Edwards si ritrova svuotato [12]


Il capo indiano Scar (Henry Brandon) è quello che Angela Aleiss definisce “personaggio specchio [13]. Somiglia molto a Ethan: la sua famiglia è stata massacrata, odia l’altro e ci si relaziona con violenza, conosce sufficientemente la cultura e il mondo del suo nemico.
Martin (Jeffrey Hunter), il coprotagonista, è invece un meticcio, forse un mezzosangue vero e proprio o forse solo per un ottavo. “È colui che tiene insieme, che non distingue (e quindi inquieta), è il concatenamento originario fra l’io e l’altro [14]”. Sin dall’inizio ci viene mostrato un certo astio nei confronti di Martin da parte di Ethan, personaggio animato da un odio totale per il mondo indiano e verso il quale il pubblico non viene messo nella condizione di simpatizzare, nonostante sia interpretato dalla star John Wayne.
Martin, al contrario, non è spietato come Ethan, quando per la prima volta spara contro gli Indiani non lo fa a cuor leggero. La presenza del ragazzo è necessaria per moderare Ethan, la cui follia può debordare e danneggiare la comunità. La nascente comunità ha bisogno di Martin più che di Ethan: in fin dei conti, è Martin a salvare Debbie da Ethan in occasione del primo incontro, è lui ad uccidere Scar, ed è sempre suo merito se nella sua seconda azione l’esercito non opera un massacro indiscriminato ma un’operazione con precisione chirurgica. Ha poteri quasi taumaturgici sugli altri: forse è il suo gesto d’amore nei confronti di Debbie a riportare la ragazza tra i bianchi, alla “ragione”, provocando un cambiamento altrimenti inspiegabile.


Il contesto è quello del Sud, impoverito e distrutto in seguito alla guerra civile. Ethan è un sudista convinto, ancora fedele alla causa: “Un uomo deve fare un giuramento alla volta”, dice in risposta al reverendo un tempo dalla parte degli stati confederati e ora riappacificato con gli Stati Uniti di matrice nordista. Il suo odio per i nativi americani è viscerale e spesso sfocia in violenza gratuita, quasi folle.
Tradizionalmente l’azione nel cinema western è sorretta da quella che Gilles Deleuze ha chiamato rappresentazione organica [15]: azione dell’eroe e comunità non sono scindibili, l’azione risponde a uno schema del tipo S-A-S1. Vale a dire: una situazione critica iniziale (S), sulla quale agisce l’eroe (A) che si può spingere fino all’omicidio, il raggiungimento di una nuova situazione migliore di quella precedente (S1) e il radicamento dell’eroe nella comunità. In Sentieri Selvaggi tale schema non è applicabile. Ethan Edwards ha una serie di caratteristiche che non permettono di classificarlo come eroe, ma soprattutto egli non appartiene né entra a far parte della comunità e le sue azioni, più che dall’interesse per la collettività, sono dettate da proprie personali pulsioni-ossessioni: la sua violenza non porta benefici alla comunità, ma è spesso fine a sé stessa. 


Scrive Franco Ferrini: “Il viaggio di Ethan non è che una parodia di questo tema. Il suo oggetto non ha nulla di positivo, di costruttivo (trovare una patria o mettere su casa). Tende solo alla distruzione: scotennare Scar [16]”. Ha un modo di agire selvaggio, ai limiti della razionalità, che lo avvicina più ai suoi avversari che agli altri membri della comunità bianca. Quando trova il cadavere di un guerriero indiano gli spara negli occhi, perché secondo le credenze Comanche senza occhi il cadavere sarà costretto per sempre a vagare nel mondo degli spiriti, e nel compiere il gesto si diverte. Durante il primo scontro con la tribù di Scar, disobbedendo al reverendo che guida la spedizione, non dà tempo agli Indiani di recuperare i feriti e continua a sparare fino all’ultima cartuccia sui guerrieri avversari, uccidendo i suoi nemici anche alle spalle. Nel personaggio di Ethan non c’è quindi eroismo, non c’è codice d’onore, nello scontro non c’è quella cavalleria che era proprio la caratteristica che era stata più volte attribuita agli Indiani quando si voleva nobilitarli (ad esempio, in L'ultimo dei Mohicani, nella sua versione del 1920). Ancora, Ethan si spinge a massacrare i bufali che incontra solo per affamare in futuro gli Indiani. 


L’odio del personaggio interpretato da Wayne supera ogni moralità e legittimità quando questo vuole uccidere la nipote ritrovata, perché oramai “indianizzata”. La sua posizione è chiara: “Vivere con i Comanche non significa vivere”. Nel finale scotenna Scar, ritrovandosi quanto mai simile al nemico appena deceduto.
La comunità di Sentieri Selvaggi non è ancora formata, essenzialmente è ridotta a due famiglie, gli Edwards e gli Jorgensen che cercano di intrecciare le loro dinastie. La morte dei due fidanzati Lucy e Brad simboleggia il pericolo d’estinzione della comunità. Nella scena finale, da un lato assistiamo alla rinascita della comunità con il matrimonio tra Martin e Laurie Jorgensen e il reinserimento di Debbie; dall’altro assistiamo all’esclusione dalla comunità di Ethan che, seppur fondamentale nella genesi, con la sua violenza [17], il suo odio, il suo estremismo non può far parte di questa seconda fase della vita comunitaria. Toni D’Angela legge nel finale di Sentieri selvaggi la sconfitta dell’uomo del west, che viene messo fuori dalla nuova comunità capitalistica, che è nata proprio grazie a quella guerra civile che Ethan ha perduto: “Uomini come Ethan Edwards, refrattari all’ordine e alla disciplina, esseri fondamentalmente ai margini – come il capo indiano Scar – sono destinati a restare fuori dello sviluppo capitalistico, fuori della Storia, costretti a vagabondare in un presente che va via via consumandosi sempre più [18]”. È la fine del rapporto tra comunità ed eroe bianco così come il western l’aveva descritto per quasi cinquant’anni.

Sentieri Selvaggi è un western con una struttura indiziaria, pieno di vuoti, in cui molte cose non sono mostrate, ma suggerite [19].


La violenza degli Indiani ci è solo suggerita. Non viene mostrato l’attacco alla casa degli Edwards, se non attraverso la tensione sui volti dei personaggi che lo subiscono, né vengono mostrati i cadaveri di Martha, Aaron, Ben e Lucy Edwards, se non attraverso il disgusto sul viso di Ethan. È una tecnica particolarmente efficace, in cui il regista suggerisce allo spettatore, dà degli indizi e stimola l’immaginazione che immediatamente si spinge a un livello di brutalità sicuramente superiore a quello che Ford avrebbe potuto mostrare. La violenza degli Indiani è però soprattutto violenza sulle donne, secondo lo studioso Michael Hilger, “Sentieri Selvaggi, uno dei migliori western, è tristemente anche un esempio lampante del razzismo che vi è dietro il ritratto dei selvaggi nativi americani come profanatori di donne bianche [20]”.  
La morte degli indiani invece è mostrata in maniera diversa, con meno pathos e non è mai nascosta agli occhi, né affidata all’immaginazione come quella dei protagonisti bianchi [21].
Nel corso del film, Martin sposa per errore un’indiana. La rappresentazione della donna è macchiettistica, c’è una sessualizzazione al contrario [22]. Tuttavia, Ford la ritrae come la creatura più innocente dell’intera pellicola e il suo assassinio, insieme al resto della tribù (donne, bambini e anziani compresi), da parte dell’esercito degli Stati Uniti rappresenta uno dei momenti più emozionanti del film e di aperta critica al militarismo degli Stati Uniti


Quando Ethan entra nella baracca dove sono radunate le donne bianche rapite negli anni dai pellerossa, le donne vengono prese dall’isteria, piangono e urlano. Una in particolare si ostina a cullare un pezzo di legno come se fosse il suo bambino. Un soldato dice: “È difficile credere che siano bianche” e Ethan risponde, “Non sono bianche, non più. Sono Comanche”. Attraverso la scena, Ford mostra come il razzismo di Ethan si estende anche sui bianchi “perduti”, e allo stesso tempo critica il massacro perpetuato dall’esercito statunitense, perché è chiaro che le donne, ancora prima di essere bianche o comanche, sono traumatizzate da quanto fatto dalle divise blu. Per Giorgio Mariani [23], come per Ken Nolley [24], è attraverso queste scene che Ford opera un primo ribaltamento nella rappresentazione della storia dei nativi americani, che proseguirà in Cavalcarono insieme (1961) e Il grande sentiero. Tradizionalmente la violenza dei bianchi è stata rappresentata come legittima in quanto risposta a quella dei pellerossa; qui invece sono i pellerossa ad aver subito la violenza (con l’uccisione dei figli di Scar), ad aver risposto attraverso le armi (e tuttavia risparmiando Debbie e Lucy) e ad aver nuovamente subito una risposta violenta che però non ha risparmiato nessuno. In Sentieri selvaggi, dunque, il mondo dei bianchi ci viene mostrato violento quanto quello degli indiani, se non di più. Il ritratto della cavalleria è estremamente differente da quello che Ford aveva fatto nell’immediato dopoguerra: la cavalleria non solo è spietata, ma caratterizzata anche dall'incompetenza, incarnata dal giovane tenente Greenhill (Patrick Wayne). Come sottolinea Angela Aleiss, “il messaggio è disturbante e realistico: sotto l’impalcatura della civiltà giace una terrificante barbarie [25]”.


Tuttavia, secondo alcuni, Ford non si spinge fino alla denuncia completa della società bianca: “Dopo aver denunciato, sia pur in modo più implicito che esplicito, la sostanza violenta e razzista della conquista del west, cerca di forgiare una distinzione tra colonizzatori buoni e cattivi, che nella realtà delle vicende narrate non regge assolutamente. I buoni, infatti, attingono a piene mani ai risultati prodotti dall’opera dei cattivi [26]”. Questo film, dunque, apparterrebbe secondo una parte della critica a quella categoria che Ward Churchill, analizzando il film Il piccolo grande uomo (Arthur Penn, 1970), ha definito Custerismo e che caratterizzerà e limiterà la gran parte dei cosiddetti film revisionisti: “simbolicamente dissociano sé stessi dalle intollerabili storture del Custerismo, in tal modo si sentono bene con sé stessi anche se continuano a partecipare e a beneficiare dell’ordine socioeconomico che il Custerismo ha prodotto [27]”. C’è dunque una dissociazione parziale dalla violenza, dal razzismo, dall’intervento armato. Ford sembra suggerire che essi siano necessari per la nascita e la difesa della comunità, ma sono elementi che vanno espulsi una volta fondata la comunità, rispediti nel deserto, al di là della porta, così come accade a Ethan Edwards. Letto nel contesto degli anni ’50, della cosiddetta “teoria della rappresaglia massiccia” del segretario di Stato John Foster Dulles, delle tante azioni che il governo americano promosse sullo scacchiere globale - dall’operazione Ajax in Iran, agli interventi in Guatemala, in Libano, al ruolo nella crisi di Suez – nel film di Ford potrebbe, secondo il parere di chi scrivere, essere letto un messaggio politico in parte a favore dell’interventismo, necessario per la difesa e il consolidamento della comunità americana. 


In rapporto, invece, alla politica governativa della termination che in quegli anni trionfava definitivamente, sostenendo le virtù della distruzione della cultura dei Nativi e la loro assimilazione in quella bianca, il film appare come una condanna dei tentativi assimilazionisti. La nuova comunità che si forma alla fine del film è composta da membri di origine irlandese, scozzese, scandinave, parzialmente afro-americani e da un meticcio che ha scelto di stare senza alcun serio tentennamento dalla parte dei bianchi. Per i Nativi Americani invece non c’è spazio, non c’è possibilità di assimilazione, essa non è la chiave per una coesistenza pacifica. In questa pellicola prevalgono le ansie e il pessimismo (ma volendo anche il realismo) che caratterizzarono la produzione di Ford a partire dalla metà degli anni ‘50 [28]: lo sterminio dei Nativi, pur se deprecabile, continua ad essere elemento fondativo della storia e del mito della comunità bianca.


Nel 1956, John Ford dunque tornò a cambiare le carte in tavola e a riscrivere le regole del western. Dopo quella data il genere comincia a mostrare sempre più spesso un certo cinismo, uno smaccato disincanto nel ritratto dei personaggi bianchi che diventano incarnazione di un razzismo esplicito, violento nei gesti e nelle parole, privo di giustificazioni ideologiche o discorsi legittimanti. Certamente, opere crepuscolari esistevano anche prima di quella data, si pensi ad esempio a La lotta per la vita [29] (King Baggot, 1925), ma a partire da Sentieri selvaggi le questioni del razzismo e della possibilità dell’assimilazione diventano imperanti e più espliciti che mai. Ciò in coincidenza della sempre più spiccata centralità che il problema dell’uguaglianza razziale e dei diritti assume nel dibattito pubblico e dell’attuazione della politica della termination. Il distacco tra protagonista e comunità diviene il nuovo leitmotiv del genere, sulla scia di quanto Ford aveva fatto con il personaggio di Ethan Edwards.





[1] Cfr. K. Nolley, The Representation of Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964, in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian. The Portayal of the Native, Kentucky, The University Press of Kentucky, 2003.

[2] Cit. Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Parma, Patriche Editrice, 1990, p. 23.

[3] Cfr. Richard Maltby, A Better Sense of History: John Ford and the Indians, in Ian Cameron e Douglas Pye (a cura di), The Book of Westerns, New York, Continuum Intl Pub Group, 1996, pp. 34-49.

[4] Cfr. William Darby, John Ford’s Westerns: A Thematic Analysis with a Filmography, McFarland & Company, 1996.

[5] Cfr. K. Nolley, The Representation of Conquest…., in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian.

[6] Cit. Toni D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John Ford, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western. Da Griffith a PeckinpahAlessandria, Edizioni Falsopiano, 2004, p. 23-24.

[7] Cit. Angela Aleiss, Making the white man’s Indian. Native Americans and Hollywood Movies, Westport, Praeger Pubblishers, 2005, p. 101.

[8] Cfr. Roberto De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, p. 144.

[9] Cit. Michael Hilger, From Savage to Nobleman: Images of Native Americans in Film, Lanham, Maryland, The Scarecrow Press, 2002., p. 108.

[10] Cfr. James Monaco, How to read a film, New York, Oxford University Press, 1977, p. 253.

[11] Cfr. Ward Churchill, Fantasies of the master race: literature, cinema and the colonization of American Indians, San Francisco, City Lights, 1998, p. 196-197.

[12] Cfr. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, pp. 138-139.

[13] Cit. A. Aleiss, Making the white man’s Indian…, pp. 102-105.

[14] Cit. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, p. 138.

[15] Cit. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano, 2002.

[16] Cit. Franco Ferrini, John Ford, Roma - Milano, L’Unità – Il Castoro, 1995, p. 65.

[17] Pur cambiando i connotati, la violenza resta pur sempre, come l’ha definita Stefano Rosso, “necessaria alla fondazione e al mantenimento di un ordine sociale spesso fragile e precario”. Cit. Stefano Rosso (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema, Verona, Ombre Corte, 2006, p. 13.

[18] Cit. T. D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John Ford, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, p. 63.

[19] Cfr. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, pp. 138-145.

[20] Cit. M. Hilger, From Savage to Nobleman, p. 8.

[21] Cfr. K. Nolley, The Representation of Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964 in in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian.

[22] Cfr. M. Hilger, From Savage to Nobleman, p. 5.

[23] Cfr. Giorgio Mariani, Il cinema western visto dagli Indiani. Vendetta e violenza in Sentieri Selvaggi di John Ford e Indian Killer di Sherman Alexie in Stefano Rosso (a cura di), Le frontiere del Far West. Forme di rappresentazione del grande mito americano, Milano, Shake Edizioni, 2008, pp. 57-77.

[24] Cfr. K. Nolley, The Representation of Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964 in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian.

[25] Cit. A. Aleiss, Making the white man’s Indian…, p. 104.

[26] Cit. G. Mariani, Il cinema western visto dagli Indiani… in S. Rosso (a cura di),  Le frontiere del Far West, p. 64.

[27] Cit. W. Churchill, Fantasies of the master race, p. 190.

[28] Cfr. A. Aleiss, Making the white man’s Indian…, pp. 102-105.

[29] Di questo film Clelia Cohen offre una breve ma esaustiva trattazione in Clélia Cohen, Il western: il vero volto del cinema americano, Torino, Lindau, 2006, pp. 53-55.

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