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lunedì 15 febbraio 2016

[RECENSIONE] Dylan Dog Color Fest #16 – Analisi di una struttura emotiva



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Introduzione

“Le emozioni sono il device centrale di cui gli autori dispongono per controllare l’attenzione dei lettori, ascoltatori, spettatori”

Mi è capitato di leggere questa frase di Noel Carroll [1] circa dodici ore prima di leggere l’ultimo color fest di Dylan Dog. Volume molto atteso, esempio perfetto del nuovo corso della testata, che ospita tre autori di grande profilo e solitamente lontani dal fumetto popolare: Ausonia, Marco Galli e Aka B

L’albo, sperimentale nel tratto e nelle storie raccontate, ha raccolto consensi e critiche in rete, con attenzione dedicata per lo più alle trame, ai significati nascosti, alle particolarità del tratto e così via. Ho invece scelto di provare a guardare le prove dei tre autori da un punto di vista diverso, concentrandomi sul modo in cui hanno scelto di comunicare al lettore quella gamma di emozioni che in fin dei conti costituiscono l’essenza della letteratura horror. Sono dell’idea che la dimensione emotiva di un’opera, soprattutto quando è visiva come lo è il fumetto, è d’importanza fondamentale per via della sua natura pre-razionale, per la sua capacità di instaurare un dialogo con il lettore prima ancora che testi e immagini vengano pienamente elaborati e che troppo spesso questa dimensione venga sottovalutata nelle valutazioni. Per alcuni aspetti le tre storie mi sembrano soffrire di qualche debolezza: in qualche dialogo o nell’intendere troppo Dylan come oggetto più che come soggetto della narrazione, per esempio. Ma non voglio entrare nel merito di ciò, non voglio dirvi se sia bello o brutto, se mi sia piaciuto o meno, lo lascio a voi: l’intento è cercare di capire come queste tre storie funzionano in relazione a un preciso obiettivo. Questo perché dal punto di vista che come detto mi interessa in questa analisi, che da ora in poi chiameremo struttura emotiva, le tre storie sono risultate estremamente interessanti e complesse.

Ripeto, voglio analizzare le storie per il modo in cui vengono comunicate al lettore le emozioni, con quali strumenti e quali concetti; come gli autori sfruttano quello che Carroll ha chiamato nella citazione di prima device centrale. Cercherò di analizzarne la struttura emotiva.


Sire Bone – Abiti su misura di Ausonia

Sono due a mio parere gli strumenti che Ausonia usa nel suo dialogo “emotivo” con il lettore, li chiamerò: disattesa eroistica e morbosità visiva.



Partiamo da quest’ultima. C’è nella storia di Ausonia un continuo richiamo alla morte. Il Dylan a mollo nella vasca della prima pagina sembra un cadavere; i corpi (non solo quello di Dylan) hanno un grigiore innaturale; volti emaciati, occhi spiritati, capelli incolti, labbra scure, carni flaccide. La putrefazione è il tema visivamente dominante, la fonte dell’inquietudine. La putrefazione è quella fase estrema che separa l’essere inteso come esistenza e il non essere inteso come definitiva scomparsa. È l’ultima fase che porta l’ente a divenire ni-ente. Nella morte può esserci comunque grazia, può essere associata alla serenità; nella definitiva scomparsa del corpo c’è l’accettazione della sua fine; è la putrefazione che crea il massimo ribrezzo, è l’ultimo rito di passaggio e come ogni rito di passaggio è carico di paura, ansia. Nella storia di Ausonia la morte irrompe nel quotidiano attraverso la decadenza dei corpi e il loro deperimento, trasformando oggetti comuni in oggetti di morte e viceversa. La società occidentale si distingue dalle altre anche per il perenne esibizionismo del corpo e nell’ultimo decennio, in particolare, per la possibilità data a tutti di esibirlo a un pubblico mai tanto vasto (social network e altro) e per la diffusione di mezzi che vanno dalla chirurgia estetica al più semplice fotoritocco in grado di arginare il deperimento fisico dovuto al migliore amico della morte, il tempo. La putrefazione è dunque un grande catalizzatore di paure ataviche e più che mai tabuizzate negli ultimi decenni. Ausonia la richiama in ogni pagina. Le stesse pagine, e forse questo è l’elemento più disturbante, sono putrefatte. Graffiate, sporche, crepuscolari, disturbano visivamente, disturbano la decifrazione del disegno, sono come un cadavere torturato, violentato e lasciato a marcire. Le vignette, qualsiasi sia il loro contenuto, sono appesantite da questo carico di disturbante accanimento.

Passiamo ora alla “disattesa eroistica”. Il disagio nel lettore è indotto anche attraverso la discrepanza tra l’azione attesa e il suo mancato arrivo. Negli anni una lettura fuorviante del personaggio ha confuso il rendere Dylan soggetto attivo della storia con il trasformarlo in una sorta di eroe, la cui azione ha un effettto pacificatore, alla pari di tanti altri personaggi di casa Bonelli. Ausonia gioca su questa radicata aspettativa del lettore e la disattende, creando al lettore l’imbarazzo di accettare un personaggio colpito nella sua iconocità e costretto a convivere con quell’elemento di morbosità putrescente di cui si parlava prima.


Grick Grick di Marco Galli

Qui la “struttura emotiva” è abilmente costruita e particolarmente efficace. Ci sono tutte una serie di scelte che riescono a calare il lettore in un contesto quanto mai suggestivo.

A) La dimensione uditiva della storia, con il “grick grick” generato dallo sfregare dei denti del demone di turno. Un rumore che attraversa fisicamente le tavole e virtualmente la testa del lettore, tenendo continuamente la sua attenzione su qualcosa di esterno alla vignetta. Esterno e dunque ignoto e dunque temibile. Il lettore è spaventato da ciò che non conosce, vale lo stesso al cinema e in letteratura.



B) Il volto di Dylan continuamente in ombra. È quello che mi piace chiamare “orrore indiziario”. L’orrore non viene mostrato, viene suggerito. Ancora una volta lo spettatore è privato di un pezzo di conoscenza e l’autore mette dalla propria parte l’alleato più prezioso di ogni narratore: l’immaginazione di chi usufruisce dell’opera. Non vediamo cosa c’è sul volto di Dylan, quale espressione: non la vediamo con gli occhi ma la proiettiamo con l’immaginazione e l’autore sa e confida nel fatto che la nostra immaginazione può superare qualsiasi cosa sia possibile mostrare o mettere su carta.



C) Rispetto all’episodio precedente dove l’ambientazione irrazionale era potenzialmente senza limiti spaziali e temporali, qui vediamo Dylan “costretto” nella propria casa, nelle poche stanze che la compongono. È perfetto il modo in cui Galli inserisce al culmine della suspense degli esterni che hanno un doppio effetto. Il primo è quello di creare un falso indizio, far percepire al lettore che qualcosa si annida fuori dal numero 7 di Craven Road e che il pericolo possa venire da lì. Un po’ come un prestigiatore che ti fa concentrare sulla mano sinistra quando il trucco sta avvenendo in quella destra, per crearti false attese che diventano funzionali al gioco che sta portando avanti. L’altro effetto è quello di contrapporre la quiete degli esterni (in particolare quelli diurni) a quanto invece c’è nella casa. Come una macchia nera su uno sfondo bianco. 
La casa è attraversata da ombre, che si dipanano seguendo la logica dell’orrore più che le leggi fisiche. Ci ritroviamo dunque di fronte a porte immerse nella più completa oscurità in cui ogni cosa può celarsi, un velo nero impenetrabile agli occhi in cui l’immaginazione si perde: ancora una volta la privazione della conoscenza dà spazio all’immaginazione e genera paura.



D) Magistrale è la regia. L’orrore ci è presentato poco alla volta, con un susseguirsi di dettagli e primissimi piani (otto per l’esattezza nel primo incontro con il demone). Ad alcune parti anatomiche, alla bocca e ai denti in particolare, vengono associati dei messaggi negativi: i denti producono il fastidioso rumore che tormenta personaggi e lettori; un’inquadratura della bocca è il mezzo attraverso cui si realizza il transfert di mostruosità dal demone alla fidanzata di turno di Dylan, a pagina 49 v.3. 



Una certa carica emotiva è  catalizzata anche attraverso le mani che vengono usate per trasmettere la tensione febbrile di Dylan (pag. 49, v.4) o l’imminente pericolo (pag. 53, v.2). La “telecamera” è accordata ai movimenti dell’orrore: quando l’autore vuole dare un senso di totale sovrastamento, ci riesce mirabilmente attraverso poche ma ben piazzate inquadrature dall’alto che costituiscono il climax registico della struttura emotiva di questo racconto. 



    Claustrophobia di Aka B

Come il titolo lascia immaginare, Dylan è costretto in uno spazio ancor più ristretto rispetto a quello delle precedenti storie. L’albo nella sua interezza sembra avere una struttura asfissiante: dal mondo irrazionale/onirico potenzialmente vastissimo della prima storia, si passa alla casa della seconda e infine a questa specie di pozzo della terza.

Il lettore è qui privato di ogni componente spazio-temporale, con lo stesso fondo del pozzo che è impossibile da misurare, soggetto a un continuo cambiamento. Il lettore è dunque spiazzato, privato dei due elementi base (spazio e tempo) con cui la sua mente discerne il mondo. È un risultato estraniante che è terreno fertile per l’anima metanarrativa della storia.
La storia sembra puntare a porre il lettore in uno stato di perenne agitazione, che viene veicolato attraverso il continuo movimento anatomico di Dylan. Particolarmente ricercati ed efficaci sono i movimenti degli occhi, rappresentati in continuo cambiamento: ora chiusi ora aperti, ora in una direzione ora in un'altra, creando un movimento schizofrenico che crea scintille se rapportato alla costrizione fisica in cui Dylan si ritrova. Forse non a caso, sono proprio gli occhi che esplodono nelle pagine finali, nell’unico momento in cui Dylan raggiunge una consapevolezza in cui riesce temporaneamente ad evadere dal pozzo.


L’altro strumento con cui Aka B induce nel lettore un senso di agitazione e affannamento è la gabbia. Ne fa un uso fittissimo con 160 vignette in 32 pagine. Realizza attraverso esse una narrazione sincopata, basata sulla ripetizione e l’alternarsi di vignette secondo un criterio tematico o registico. Il ritmo è altamente coinvolgente, come le rime di una poesia.

Pagina 69-76, ad esempio:

Pag. 69 (5 vignette)
Dettaglio-dettaglio
Esterno, doppia vignetta
Dettaglio-primo piano

Pag. 70 (6 vignette)
Primissimo piano Dylan-dettaglio Dylan-dettaglio Dylan
Particolare galeone-particolare galeone-particolare galeone

Pag. 71 (5 vignette)
Dettaglio Dylan-Dettaglio Dylan-Primo Piano Dylan (doppia vignetta al centro della pagina come in pag. 69)
Inquadratura pozzo e luna – inquadratura pozzo e luna (quest’ultima chiude la tavola e dà l’unico indizio cronologico al lettore)

Pag. 72 (5 vignette)
5 primissimi piani, di cui il primo in alto su doppia vignetta – l’intera tavola è dedicata a Dylan

Pag. 73 (6 vignette)
6 esterno – l’intera tavola vede l’assenza di Dylan. Nell’ultima vignetta della pagina destra c’è il pozzo, come in pagina 71.

Pag. 74 (5 vignette)
Dettaglio Dylan, doppia vignetta in alto come in pagina 72
Esterno
Mezza figura Dylan – Primissimo piano Dylan
Inquadratura pozzo e luna, chiude la tavola come in pagina 73 e 71

Pag. 75 (6 vignette)
6 dettagli delle mani, visivamente simile a pag. 72 anche questa è dedicata totalmente a Dylan

Pag. 76 (6 vignette)
Esterno
Primo piano – Mezza figura – Mezza figura – Dettaglio
Inqudratura pozzo e luna, chiude la tavola come in pagina 74, 73 e 71

Ponendo la tavola a 5 vignette come A e quella a 6 vignette come B, abbiamo il seguente schema: A-B A-A B-A B-B. Questo ovviamente è solo uno degli schemi che si possono tracciare, a seconda delle tavole scelte. È però palese come il ritmo viene donato in termini metrici con tutta una serie ripetizioni, anafore, allitterazioni, assonanze rime visive e registiche, creando un senso di trasporto nel lettore. Le due tavole 84-85 perfettamente speculari sono forse l’esempio più concreto di tale effetto. Questo fino alle due pagine 94-95 con la frammentazione della gabbia in 9 vignette per tavola.


È tutto.
Se siete arrivati fin qui, non posso fare altro che ringraziarvi per l'attenzione.
Ogni commento, qui o su facebook, è sempre gradito.
Alla prossima.

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[1]  Noel Carroll, Art, Narrative and  Emotion, in Mette Hjort e Sue Laver (a cura di) Emotion and the Arts, Oxford UP, Oxford 1997, p. 196.


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