Nelle scorse settimane, Roberto Recchioni ha iniziato sul proprio blog la pubblicazione di una serie di lezioni di scrittura (la prima la trovate qui)
che hanno catturato il mio interesse e che ho condiviso sulla pagina facebook di questo blog. Mi hanno fatto tornare in mente le celebri dieci regole
di scrittura di Elmore Leonard. Sono andato, quindi, a spulciare rete e libri e ne ho trovate di
diversi autori.
Gli scrittori statunitensi, in
particolare, arrivati a un certo punto della loro carriera, puntualmente
provano a schematizzare il loro pensiero in regole e/o lezioni su ciò che sia
la “buona scrittura". Cosa penso di queste regole: penso
innanzitutto che non esista un solo modo "giusto" di scrivere, né che
la scrittura possa essere ridotta a regole e irrigidita in un decalogo.
Allora, perché ho deciso di iniziare una serie di post dedicata
alle regole di scrittura di alcuni dei più grandi autori del ‘900 e degli anni
duemila? Da un lato, perché tali regole pur nei loro limiti (di cui gli autori
stessi sono ben consci) rappresentano un momento di riflessione su cosa vuol
dire scrivere e su come farlo: riflessione preziosa, soprattutto per quanti
come me stanno muovendo i primi passi in questo campo (minato). In secondo
luogo perché sono delle finestre sugli stessi autori che le firmano e sulla
loro arte.
Come avrete intuito, questa serie
di post la apre Elmore Leonard. Le sue dieci regole le trovate tradotte in
italiano in decine di siti, tuttavia tra i tanti che ho visionato non ho mai
trovato la traduzione integrale. La traduzione è di mio pugno, realizzarla è
una cosa che mi ha divertito, ma premetto che tradurre non è la mia
professione, quindi perdonatemi eventuali inesattezze (e casomai segnalatemele).
Elmore Leonard nasce nel 1925 a New Orleans, trascorre la prima parte della sua vita spostandosi spesso: prima a Dallas, poi a Oklahoma City, a Memphis e infine a Detroit, la città che più ha influito sulla sua produzione letteraria. A detta di molti, è il più grande dialoghista dell’ultimo secolo. Quanti lo sostengono, a mio parere, non sono lontani dalla realtà. È straordinaria la sua capacità di usare il dialogo rapido e sferzante per disegnare a partire dagli archetipi, i topos e le maschere del genere psicologie complesse, personaggi in grado, come si suol dire, di “bucare la carta”. Scrive tanto, sa intercettare il cinema, sa districarsi in vari generi. Come lettura in cui secondo me dà il suo meglio e dalla quale emerge un quadro articolato del suo stile e delle sue capacità, vi consiglio Tutti i racconti western, edito da Einaudi nel 2008, con la tradizione di Luca Conti.
L’articolo è stato
pubblicato originariamente il 16 luglio 2001 sul New York Times, qui trovate il testo in lingua inglese.
Vacci piano con gli avverbi, i punti esclamitivi e soprattutto con gli hooptedoodle [1]
Queste sono regole che ho messo su
strada facendo, per aiutarmi a rimanere invisibile quando scrivo un libro, per
aiutarmi a mostrare piuttosto che raccontare ciò che succede in una storia. Se
possiedi facilità di linguaggio e immaginazione e il suono della tua voce ti
appaga, l’invisibilità non è ciò che fa per te dopotutto, puoi saltare queste
regole. Oppure, potresti comunque
guardare qui giù.
1. Mai iniziare un libro con il meteo.
Se è solo per creare atmosfera e
non c’è una reazione dei personaggi al tempo atmosferico, non andrai molto
lontano. Il lettore tende a sfogliare
avanti in cerca di persone. Ci sono delle eccezioni. Se ti è capitato di essere
Barry Lopez, che ha più modi
di descrivere il ghiaccio e la neve di un Eschimese, puoi fare tutti i
bollettini meteo che vuoi.
2. Evita i prologhi.
Potrebbero annoiare, soprattutto se
il prologo segue un’introduzione che a sua volta viene dopo una premessa. Di
solito li trovi nella saggistica. Un prologo in un romanzo è un antefatto e
puoi risistemarlo ovunque tu voglia. C’è un prologo in Quel fantastico giovedì di John Steinbeck ma va bene, perché c’è un personaggio del libro che fa il
punto esattamente di ciò che sto dicendo in queste regole. Dice: “Mi piacciono
molto i dialoghi in un libro e non mi piace non avere nessuno che mi dica com’è
che sembra il tizio che parla. Voglio immaginarmi il suo aspetto dal modo in
cui parla. Io voglio immaginarmi ciò che il tizio pensa da ciò che dice. Mi
piace qualche descrizione, ma non troppe. A volte voglio un libro che rompa con
tutto quel hooptedoodle… Potrebbe
anche essere carino. Ma vorrei che fosse messo da parte, così non sono
costretto a leggerlo. Non voglio che l’hooptedoodle si mischi con la storia.”
3. Mai usare altro verbo che non sia “disse” per sostenere un dialogo.
La battuta appartiene al
personaggio; il verbo è lo scrittore che ci ficca il naso dentro. Ma “disse” è
meno invasivo di “borbottò”, “sussultò”, “avvertì”, “mentì”. Una volta notai
che Mary McCarthy aveva
terminato una battuta con “asserì”, e dovetti fermare la lettura e prendere il
dizionario.
4. Mai usare un avverbio per modificare il verbo “disse”.
Ammonì gravemente. Usare un
avverbio in questo modo (o in ogni altro) è un peccato mortale. Lo scrittore
sta esponendo troppo sé stesso, usando una parola che distrae e può
interrompere il ritmo di uno scambio. Ho un personaggio in uno dei miei libri
che che era solito scrivere i romanzi storici “pieni di stupri e avverbi”.
5. Tieni sotto controllo i tuoi punti esclamativi.
Te ne sono concessi non più di due
o tre ogni centomila parole. Solo se
avete la capacità di giocare con i punti esclamativi alla maniera di Tom Wolfe, li potete buttare a
piene mani.
6. Mai usare le parole “improvvisamente” o “tutto andò a farsi
friggere”[2]
Questa regola non necessita di
spiegazioni. Ho notato che gli scrittori che usano “improvvisamente” tendono a
non tenere sotto controllo l’uso dei punti esclamativi.
7. Usa dialetti regionali e gerghi con moderazione.
Una volta che inizi a riportare
foneticamente le parole in un dialogo e a caricare la pagina di apostrofi, non
sarai più in grado di fermarti. Guarda come Annie Proulx cattura la varietà delle voci del Wyoming nel
libro di storie brevi Distanza
ravvicinata.
8. Evita descrizioni dettagliate dei personaggi
Come faceva Steinbeck. In Hills Like White Elephants cosa dice Ernest Hemingway “dell’americano
e della ragazza con lui”? “Lei si tolse il suo cappello e lo posò sul tavolo”
Quella è l’unica descrizione fisica nella storia, e tuttavia possiamo
immaginarci la coppia e conoscerli attraverso il tono della loro voce, con
nessun avverbio all’orizzonte.
9. Non andare troppo nel dettaglio quando descrivi luoghi e cose.
A meno che tu non sia Margaret Atwood
e sai dipingere con le parole o descrivere paesaggi nello stile di Jim Harrison. Ma anche se ci sai
fare, non vorrai certo che le descrizioni portino l’azione, il flusso della
storia, a un punto morto.
10. Prova a tagliare le parti che i lettori tendono a saltare.
Una regola che mi è venuta in mente
nel 1983. Pensa a ciò che potresti saltare durante la lettura di un romanzo: un
paragrafo fitto, che è evidente abbia troppe parole. Lo scrittore continua a
scrivere, continua con i suoi hooptedoodle,
magari butta giù qualcos’altro sul tempo atmosferico o si tuffa nella testa del
personaggio, e il lettore o conosce già i suoi pensieri o non se ne cura. Ma
scommetto che non salti mai un dialogo.
Ma la mia regola più importante è
una e riassume le altre dieci. Se suona
come scritto, lo riscrivo.
O, se l’uso appropriato si mette sulla tua strada, forse deve farsi da
parte. Non posso permettere che ciò che abbiamo imparato sulle composizioni
in inglese arresti il suono e il ritmo della narrazione. Il mio tentativo è
quello di rimanere invisibile, non distrarre il lettore dalla storia con una
scrittura scontata. (Joseph Conrad
disse qualcosa sulle parole che finiscono per essere d’intralcio a ciò che vuoi
dire) Se scrivo ad episodi e sempre dal punto di vista di un particolare personaggio
– quello la cui visione dà più vita alla scena – sono capace di concentrarmi
sulle voci dei personaggi, che vi diranno chi sono e cosa provano a proposito
di ciò che vedono e che avviene, e io non devo essere visibile in nessun punto.
Ciò che Steinbeck fa in Quel fantastico giovedì è intitolare i
suoi capitoli con un indizio, benché oscuro, di ciò di cui si occuperà. “Gli
Dei fanno impazzire chi li ama” ne è un esempio, “Lo schifoso mercoledì” ne è
un altro. Il terzo capitolo si intitola “Hooptedoodle 1” e il trentottesimo
capitolo “Hooptedoodle 2” come se avvertisse il lettore, come se Steinbeck
stesse dicendo: “Qui è dove potrai vedermi cedere ai capricci della mia
scrittura, e non intendo andare avanti con la storia. Saltalo se vuoi.”
Quel
fantastico giovedì fu pubblicato nel 1954, quando io a mia volta ero da
poco iniziato ad essere pubblicato, e non ho mai dimenticato quel prologo.
Ho letto i capitoli degli hooptedoodle? Ogni singola parola.
[1] Termine che deriva da un
capitolo di Quel fantastico giovedì di
John Steinbeck, che sta a significare prolissità, retorica, chiacchiere,
sciocchezze. Ho preferito non tradurlo, per non ridurre il valore negativo che
Leonard gli attribuisce, e aggiungere questa nota.
[2] Nel testo originale è “All hell
broke loose” espressione che sta a significare che all’improvviso tutto va per
il peggio. In italiano può essere resa in mille modi, tra cui “si scatenò
l’inferno”, “accadde il peggio” e molti altri.
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